La quercia
19 Agosto, 1977
Oggi il ragazzo è caduto e a questo vecchio ha quasi preso un colpo. Poteva finire male, anche se il fusto è forte. Alla fine ci siamo dati qualche pacca sulle spalle e abbiamo riso. Lui si è trattenuto di proposito, per non battere troppo su queste spalle curve che in qualche modo reggono ancora i grammi di tempo.
Penso che il mio ragazzo abbia mani ben robuste.
Ma chi voglio ingannare? Sono solo un povero vecchio al quale ha sfarfallato il cuore nel vedere ruzzolare il proprio figlio. Ma a quel punto lui aveva già piantato i palmi e i muscoli ancora attivi lo hanno fatto scattare in piedi come una molla.
E allora è riaffiorato qualcosa. Era lo Zyklon B, e quell’afoso luglio del’42. È di questo che voglio parlare, di come il ragazzo si faceva schiaffeggiare dalla brezza anche allora, su alla collina, mentre quelli collaudavano impianti di morte.
Era un mattino giallo di luce, appena qualche folata di vento, un sole corruscante come Dio vuole e… la saggia quercia a est della casa. Il ragazzo la guardava e sapeva che era il momento perfetto. Questo vecchio, invece, era del parere che non fosse ancora pronto, perché aveva braccia esili e occhi limitati all’innocenza. All’epoca era meno che fanciullo e se ne stava giusto dentro il suo involucro, a maturare.
Il ragazzo solleva la testa verso la chioma. Dall’intrico verde infilzato dai raggi provengono pigolii e cinguettii. Un tratto di corteccia è scorticato, ed è lì che incaglia le dita deboli. La suola del sandalo, invece, poco più giù. Ne saggia la resistenza. È buona. Si volta per un ultimo sguardo e sicuramente pensa: bene così, il babbo non compare.
Il vecchio invece è proprio in cima al sentiero. «Voglio proprio vedere come se la cava», mormora stringendo il manico del secchio con dentro alcune trote.
Giosuè si arrampica. Il vecchio sta a guardarlo e ora vorrebbe intervenire. Ha cambiato idea e non vuole starsene impalato ad aspettare che suo figlio si rompa l’osso del collo. Solo che qualcosa lo blocca: la premonizione di un’imminente ramanzina che al ragazzo frutterà come acqua su un orticello. Ed eccolo che non arriva a toccare le neppure le fronde che il sandalo slitta sul tronco e il ginocchio si lacera. Giosuè scivola e cade. Allora il vecchio grida: «Giosuè!»
Il bambino si volta e comincia a correre con quanto fiato ha in corpo. Dal ginocchio sgorga un po’ di sangue, i sandali alzano nuvole basse di polvere. «Papà! Papà!»
«Cosa ti avevo detto, Giosuè!» Ma lui è in lacrime. Quella è la prima ferita e ha bisogno di suo padre. Riceverà anche una predica più tardi, sul valore dell’obbedienza. Il sole è caldo, il tempo buono. Padre e figlio sorrideranno a fine giornata.
Ma in quell’istante, magari, il carico di olandesi veniva deportato in quel lager di Auschwitz-Birkenau. Capite? Mio figlio si sbucciava un ginocchio la prima volta e loro invece facevano massa in quelle maledette camere, e lo Zyklon arrivava in quei luridi barili. E Hitchcock non si sarebbe presentato in sala per montare i riquadri delle bobine che avevano registrato gli scorci dell’immane tragedia
Sono un vecchio alle ultime riflessioni, uno al quale l’olio della candela sta ormai per finire. Ma questi cocci di memoria non dovranno andare alla deriva. Quei drammi sono dentro di me, come croci di legno in una tacita spiaggia.
Andrò via con loro, con la memoria e il cuore vestiti di gramaglia.