Ieri pomeriggio, il vice parroco della Parrocchia Matrice, Paolo Politi, ha celebrato la messa di ringraziamento in occasione dell’anniversario della sua ordinazione sacerdotale.
Un anno dall’ordinazione a nuovo presbitero della Diocesi calatina, avvenuta il 22 febbraio dell’anno scorso, nella Cattedrale di Caltagirone; nonché dalla nomina a vicario parrocchiale della chiesa Matrice di Ramacca. Paolo Politi ha vissuto questi primi mesi di sacerdozio durante la pandemia, in un periodo critico per il mondo in cui forse è emersa prima di tutto la necessità di una soluzione spirituale.
Cosa ti ha spinto a diventare sacerdote?
«È una domanda che mi viene posta sempre, e alla quale rispondo senza esitazione: ho sempre desiderato celebrare il Sacrificio Eucaristico. Ho provato una gioia immensa durante la mia prima messa. Da allora, è sempre così. Spesso, al momento della narrazione dell’istituzione dell’Eucarestia, mi commuovo mentre pronuncio le parole di Cristo, recitandole con reverenza e timore. Tutte questo serve a qualcuno? Non lo so. Ma mi nutre profondamente. Aspetto ogni giorno quell’incontro quotidiano con Dio. È il fulcro della giornata».
Hai iniziato in un anno difficile per la Chiesa. Come lo hai vissuto?
In questo anno, e soprattutto nelle settimane successive alla mia ordinazione, quando siamo rimasti tutti chiusi in casa per il lockdown, mi domandavo cosa il Signore volesse che io facessi ora che mi aveva fatto dono del Sacerdozio. Ho avvertito l’obbligo di restare qui a Ramacca, di impegnarmi per indirizzare ogni singolo fedele a Lui, per esortare a preoccuparsi non solo dei virus che possono uccidere il corpo ma anche di quelli che affliggono l’anima. La nostra fede, che è messa a dura prova, si perde spesso facilmente.
Cos’ha perso la Chiesa, e anche soprattutto la parrocchia di Ramacca, in quest’anno di pandemia?
Durante la pandemia penso che abbiamo sperimentato tutti un senso di smarrimento. Anche la Chiesa ha rischiato di disperdersi, non potendosi radunare intorno all’Eucarestia e vivere la fraternità nella concretezza degli incontri fisici. Fondamentale, pertanto, è stato il Papa: dal colonnato che abbraccia Roma e il mondo, ha chiesto che scenda su tutti la benedizione di Dio».
Anche se può sembrare scontato, qual è l’impegno primario di un sacerdote? Quale pensi sia l’immagine che oggi la società ha dei sacerdoti?
«Sostenere le persone può essere appagante, ma non tutti vogliono ciò che un prete ha da offrire. Per rispondere a questa domanda, mi ricollego dunque alla prima, aggiungendo che sono diventato sacerdote non per stare soltanto con le persone, ma per stare intimamente con Dio. Dio, infatti, ci vuole sempre. L’adorazione che io gli offro all’altare è imperfetta, ma Lui non la rifiuta mai. E, da parte mia, quell’adorazione non si affievolisce».
Quale messaggio ti senti di lasciare alla comunità ramacchese?
Un posto particolare nel mio cuore sarà ed è riservato sempre al popolo di Ramacca, la comunità che il Signore ha voluto già farmi incontrare quattro anni fa. Insieme siamo chiamati a costruire in terra il regno di Dio. Spero di essere per tutti una vera guida e un punto di riferimento. Vi chiedo perdono se non sempre lo sono stato. Mi impegnerò a migliorare per essere sempre di più in mezzo a voi un testimone credibile dell’amore e della presenza di Dio. Guardiamo avanti con fiducia sapendo che la nostra vita è nelle mani di Dio e che viviamo il presente per annunciare con la nostra vita la gioia del Vangelo».